Il
cerchio
di Pier Luigi Lattuada
n° 14 - 2006
“Tutti son sempre
lì, non solo a dimostrare presenza, sollecitudine
e totale disponibilità, ma anche a suggerire
alla persona i modelli che ne orienteranno il comportamento.”
In questa frase di Gallini (1), riferita ai rituali
di guarigione Yoruba (popolazioni originarie dell’africa
sub-sahariana occidentale), l’osservatore attento
trova, se lo vuole, motivo di riflessione.
In quale contesto, la donna e l’uomo attuali,
possono dire di imbattersi in una condizione di “presenza,
sollecitudine e totale disponibilità”?
Se rivolgiamo l’attenzione alla nostra vita ordinaria,
facilmente ci accorgiamo di essere carenti, fortemente
carenti, rispetto alle facce nere, polverose e sudate
delle tribù africane.
La retorica postmoderna potrà senz’altro
argomentare sciorinando la lunga lista di conquiste
che la nostra cultura ha raggiunto, nemmeno lontanamente
paragonabili a quelle dei paesi eufemisticamente denominati
“in via di sviluppo”. Utilizzare un contesto
per giustificare un errore si chiama pretesto.
Ogni errore è giusto, potrebbe rispondere la
saggezza della ‘mente unitiva’; sì,
ma quando lo si riconosce.
Mi chiedo cosa impedisca alla nostra civiltà
di riconoscere di avere espropriato l’anima dalle
cose.
Abbiamo scelto il progresso tecnologico, l’egemonia
dell’economico, la smania del risultato ad ogni
costo, il potere sopra ogni cosa, il dominio sulla natura
e la lotta all’umana natura?
Assumiamocene la responsabilità.
Appunto: responsabilità, che significa ‘abilità
a rispondere’ e non ‘colpa’, come
una certa sottocultura da parrocchia di provincia ci
ha fatto credere.
Rispondere con abilità ai mali della società
moderna significa, a mio avviso, riconoscere ciò
che anche un bimbo con i suoi occhi chiari potrebbe
facilmente riconoscere: il contatto umano, la condivisione,
la socialità si è trasferita dai corpi
al ciberspazio, le nostre menti sono sempre piu’
cablate, interconnesse, colonizzate da spazzatura informazionale,
da sottoprodotti culturali nazional-popolari; i nostri
corpi sono sempre meno toccati, i nostri sguardi sempre
piu’ distanti, le nostre anime segregate dall’urgenza
del fare.
Dov’è il pagus, il villaggio, l’agorà,
il plexus, la corte, la strada, dov’è sono
finiti il luogo dove guardarsi, toccarsi, danzare, gioire,
soffrire insieme?
Ma come? Ci sono le chiese dove la domenica la gente
va a mostrare le proprie pellicce, le palestre dove
i sempre-in-forma vanno a mostrare narcisisticamente
i propri corpi modellati dalle macchine e dagli integratori,
ci sono i centri estetici, le beauty farm dove se fai
un mutuo ci puoi passare una settimana a farti coccolare,
ci sono le discoteche dove se cali due compresse puoi
sentire tutto l’amore del mondo ed esorcizzare
il tuo senso di solitudine.
Personalmente preferisco un cerchio intorno al fuoco,
un gruppo dove, gratis e con totale disponibilità,
guardarsi, toccarsi, danzare, celebrare l’esserci,
un luogo in mezzo alla natura, una corte antica dove
fermarsi, sedersi, condividere, fare anima.
Non sarai mica uno di quegli hippies nostalgici riconvertiti
new age, nemici della chiesa e parassiti della società,
non sarete mica una setta, voi vestiti di bianco che
danzate alla luna?
Il fatto è che abbiamo perso per strada la capacità
di osservare la natura e imparare da essa, abbiamo perso
per strada la capacità di fermarci e ascoltare
e imparare dal buon senso: è bello toccarsi,
è bello guardarsi, è bello stare in un
gruppo che ci riconosce, ci rispetta, ci cura. È
bello avere il proprio posto e onorarlo. Stare al proprio
posto all’interno di un cerchio è terapeutico
di per sé, dal momento che, in quello stesso
cerchio ciascuno può sentirsi al proprio posto.
E la risonanza risuona, la si porta nel cuore, ovunque
andremo saremo al nostro posto, dal momento che abbiamo
un luogo dal quale veniamo e un luogo al quale tornare.
De Mello (2) riporta la seguente storiella:
Il discepolo chiese al suo maestro una parola di saggezza.
Il maestro rispose: “Siediti dentro la tua cella
e questa da sola ti insegnerà la saggezza.”
“Ma io non ho una cella, non sono un monaco.”
“Certo che tu hai una cella: guarda bene dentro
te stesso”
Parafrasando il maestro potremmo dire: guarda bene dentro
te stesso e troverai il tuo cerchio, il “cerchio
che cura”.
Come ci ricorda il caro e compianto Claudio Tomati (3):
“Tradizionalmente, il ‘cerchio che cura’
è composto dal plexus della persona, ovvero dai
parenti e in genere da quanti ne vivono la quotidianità,
anche l'intera comunità di villaggio, con, in
alcuni casi, un gruppo apposito, un coro o corpo esorcistico
con una funzione specifica.”
Ma il plexus per essere curativo deve essere riconosciuto,
scelto; esso, come ogni cosa, non ha potere se non gli
viene conferito. Ogni membro della società è
di fatto membro di un gruppo, anzi di diversi gruppi;
riconoscere, scegliere il proprio gruppo come plexus,
come l’utero creativo, l’atanor alchemico
artefice della propria trasformazione interiore, è
qualità rara che deve essere sviluppata.
Come fare?
L’eroe in cammino verso se stesso, indubbiamente
solo nel suo viaggio, potrebbe ad esempio incominciare
ad accettare la sua solitudine, anziché rifuggirla
con ogni mezzo.
Si scoprirebbe allora accolto, protetto e nutrito, si
scoprirebbe compagno di strada tra compagni di strada,
fratello tra fratelli, fiero ed onorato di affrontare
le prove che la vita gli richiede, consapevole che la
forza che trova dentro sé viene da lontano.
L’eroe in cammino potrebbe ad esempio guardare
un po’ oltre i propri interessi personali e scoprire
che il proprio benessere nasce dal rispetto della propria
natura e la nostra natura ha un luogo dove stare, un
luogo che va allo stesso modo rispettato. Scoprirebbe
allora il potere dei luoghi e primo tra tutti il potere
del proprio luogo. Un potere generato dalla condivisione
e dalla fratellanza, dal rispetto e dall’ascolto,
dalla fiducia e dall’amore, dal coraggio dell’individuazione
e dall’accettazione della biodiversità.
L’eroe in cammino potrebbe ad esempio riconoscere
la propria piccolezza senza sentirsi piccolo e la propria
grandezza senza sentirsi grande, riconoscere la sacralità
di ogni sguardo, di ogni atto, di ogni luogo, di ogni
cosa.
L’eroe in cammino potrebbe riconoscere nelle difficoltà
che il gruppo gli crea un’opportunità,
nei limiti dei compagni di strada gli alleati che gli
richiedono la fermezza nell’intento, nello sguardo
dell’altro il maestro che guarda dritto negli
occhi il nostro maestro interiore.
L’eroe in cammino potrebbe fermarsi, ogni tanto,
e fare festa.
Note:
(1) C. Gallini, La ballerina
variopinta. Pag. 91
(2) A. De Mello, Brevetto di volo per aquile e polli.
Piemme, quarta di copertina
(3) C. Tomati, Il Cerchio che cura. Quaderni di Biotransenergetica
- n° 1. Om, Milano
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